La definizione di rifiuti urbani: cosa è cambiato per le imprese con il D.Lgs. 116/2020

Il Decreto Legislativo 116/2020 porta con sé la definizione e il concetto di rifiuti urbani, coinvolgendo anche attività economiche. 

Negozi, uffici e industrie devono dunque periodicamente scegliere tra servizio pubblico o soluzioni private, con regole, scadenze e opportunità. Vediamo in questo articolo tutti i dettagli. 

Nuova definizione di rifiuti urbani: cosa dice la legge

Con l’adozione del Decreto Legislativo 3 settembre 2020, n. 116, l’Italia ha attuato la Direttiva europea 2018/851, introducendo una revisione significativa del Testo Unico Ambientale (D.Lgs. 152/2006), in particolare nella Parte IV. 

Una delle novità principali riguarda la ridefinizione della categoria dei rifiuti urbani, che ora include anche quelli prodotti da attività economiche, a condizione che siano simili per natura e composizione a quelli domestici.

Questa estensione si applica a rifiuti provenienti da negozi, uffici e attività artigianali, ma anche, in parte, da alcune attività industriali. 

Rientrano nella definizione di rifiuti urbani, tra gli altri: carta, vetro, plastica, legno, organico, RAEE, pile, tessili, rifiuti ingombranti e rifiuti da spazzamento stradale. 

La classificazione dipende non solo dalla natura del materiale, ma anche dalla fonte produttiva elencata negli allegati L-quater e L-quinquies al decreto.

Restano escluse le attività agricole ai sensi dell’art. 2135 del codice civile. Tuttavia, se un’attività non è espressamente indicata negli allegati, ma produce rifiuti simili a quelli elencati, può comunque essere ricompresa in via analogica.

In sostanza, si assiste a una “assimilazione automatica per legge” dei rifiuti non pericolosi ex assimilabili agli urbani. Questi rifiuti, pur provenendo da soggetti diversi dai cittadini, sono equiparati agli scarti domestici per scopi gestionali e tariffari.

Inoltre, le imprese non domestiche che generano rifiuti urbani, così come definiti dal nuovo assetto normativo, possono decidere se continuare a usufruire del servizio pubblico oppure optare per una gestione indipendente. 

Questa possibilità, però, richiede una serie di adempimenti precisi. Chi sceglie l’autonomia deve infatti dimostrare di aver conferito i rifiuti a impianti autorizzati per il recupero, producendo un’attestazione rilasciata dall’operatore. 

Solo in presenza di tale prova, l’utenza sarà esentata dal pagamento della componente variabile della TARI e dalla TEFA (tributo provinciale per l’esercizio delle funzioni ambientali).

Impatti sulla TARI e sulle categorie soggette

La comunicazione di “fuoriuscita” dal servizio pubblico va inoltrata al Comune (o al gestore, in caso di tariffa puntuale) entro il 30 giugno di ogni anno, con effetti validi a partire dal 1° gennaio dell’anno successivo. 

Questo obbligo vale anche per le annualità successive, a meno che non si decida di rientrare nel sistema pubblico, possibilità comunque subordinata a vincoli temporali, come il rispetto di un periodo minimo di cinque anni.

Il nuovo assetto ha quindi spostato la responsabilità verso le imprese, rendendole protagoniste delle proprie scelte ambientali e organizzative. 

Tuttavia, la possibilità di non aderire al servizio comunale è subordinata al rispetto di obblighi formali, documentali e temporali ben definiti.

La ridefinizione dei rifiuti urbani ha un impatto diretto anche sul sistema tariffario. I nuovi regolamenti TARI, aggiornati secondo le disposizioni del D.Lgs. 116/2020, identificano le categorie economiche con potenziale omogeneità nella produzione di rifiuti urbani. 

Tra queste, sono state ricomprese anche le attività industriali dotate di capannoni produttivi, confermando l’inclusione di settori tradizionalmente considerati “speciali” all’interno del perimetro urbano.

La deliberazione ARERA 363/2021/RIF ha stabilito che i corrispettivi da applicare devono seguire le tabelle del D.P.R. 158/1999, ancora in vigore. 

In particolare, le tabelle 4a e 4b (valide per i Comuni con più di 5.000 abitanti) includono esplicitamente le “attività industriali con capannoni” tra le utenze non domestiche soggette a tariffazione come rifiuti urbani.

Si è quindi passati da un sistema basato sull’“assimilazione” operata dai Comuni, a un regime di classificazione normativamente definito, che ha eliminato il potere discrezionale degli enti locali. 

Le imprese che decidono di restare nel circuito pubblico saranno soggette alle tariffe comunali, mentre chi dimostra il conferimento privato potrà alleggerire significativamente il carico fiscale.

Non si tratta solo di una questione economica: la scelta influenza la pianificazione logistica, i contratti con operatori del settore ambientale e la rendicontazione aziendale in ambito ESG (Environmental, Social and Governance).

Autonomia e obblighi informativi: il ruolo attivo delle imprese

Il Decreto Legislativo 116/2020 non si limita a riformulare concetti: introduce una nuova responsabilità per le imprese nella gestione dei propri rifiuti. 

L’opportunità di uscire dal servizio pubblico comporta infatti l’obbligo di informare in anticipo il Comune e di mantenere una tracciabilità documentale costante sul destino dei propri scarti.

La comunicazione annuale entro il 30 giugno di cui sopra rappresenta una scadenza chiave: oltre tale termine, l’opzione è valida solo dall’anno successivo. 

Per evitare contestazioni o sanzioni, le aziende devono conservare la documentazione di recupero ed eventualmente fornirla in sede di verifica da parte delle autorità.

Va sottolineato che la normativa non consente alle imprese di rientrare e uscire liberamente dal servizio pubblico anno dopo anno. 

La scelta dell’autonomia ha validità quinquennale, con possibilità di rientro anticipato solo su richiesta e accettazione da parte del gestore comunale.

Il legislatore ha dunque voluto creare un equilibrio tra flessibilità e stabilità, responsabilizzando i produttori di rifiuti e garantendo nel contempo la sostenibilità economica dei servizi pubblici di raccolta.

In altre parole, il D.Lgs. 116/2020 rappresenta una svolta nel sistema di gestione dei rifiuti italiani, soprattutto per le utenze non domestiche. 

Introducendo criteri oggettivi di classificazione, il decreto ha posto le basi per una maggiore trasparenza e uniformità a livello nazionale.

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