La Corte di Cassazione ha di recente dichiarato inammissibile il ricorso presentato contro la condanna per gestione illecita di rifiuti pericolosi. Nello specifico, i giudici hanno ribadito la validità della sospensione dei termini di prescrizione e la gravità delle condotte accertate.
Vediamo in questo articolo tutti i dettagli.
Confermata la responsabilità per la gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi: tutti i dettagli sulla condanna
Come anticipato, la Corte di Cassazione ha posto la parola fine a una vicenda giudiziaria che trae origine da un’attività di gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi e non pericolosi.
Confermando dunque in via definitiva la condanna dell’imputato già sancita nei precedenti gradi di giudizio.
L’episodio, avvenuto nel 2018, riguardava la raccolta, il trasporto e lo stoccaggio di un’ingente quantità di materiali metallici, tra cui cavi di rame, batterie esauste, bombole di GPL e residui di apparecchiature elettriche.
Tutti rifiuti che, secondo gli accertamenti tecnici, rientravano nella categoria dei rifiuti pericolosi ai sensi del Testo Unico Ambientale (D.Lgs. 152/2006). La difesa aveva tentato di ribaltare la condanna sostenendo diversi motivi di ricorso.
In primo luogo, era stata sollevata un’eccezione di prescrizione del reato, che, secondo la tesi difensiva, sarebbe maturata nel 2023, prima della sentenza della Corte d’appello.
A tale argomento si erano aggiunte ulteriori contestazioni: la presunta occasionalità della condotta, la limitata quantità di materiale riconducibile all’imputato e l’asserita mancanza di prova sulla natura pericolosa dei rifiuti.
I giudici di Cassazione, tuttavia, hanno esaminato punto per punto le argomentazioni della difesa, ritenendole manifestamente infondate.
In particolare, è stato chiarito che la prescrizione non era maturata perché, per i reati commessi tra il 3 agosto 2017 e il 31 dicembre 2019, continua ad applicarsi la sospensione del termine di prescrizione prevista dall’art. 159 del codice penale nella versione introdotta dalla cosiddetta Riforma Orlando.
La Corte ha richiamato a tal proposito la recente pronuncia delle Sezioni Unite (sentenza n. 20989/2024), la quale ha stabilito che tale disciplina si applica a tutti i reati commessi nel periodo di vigenza della norma, fino alla successiva modifica del 2021.
Pertanto, il decorso del termine di prescrizione risultava legittimamente sospeso, rendendo infondata la pretesa estinzione del reato.
Accertata la pericolosità dei materiali: l’inquadramento giuridico
Un altro aspetto centrale del giudizio riguarda la natura dei rifiuti rinvenuti al momento del sequestro.
La difesa aveva sostenuto che mancassero prove concrete sulla loro pericolosità, ma i giudici di merito, e successivamente la Cassazione, hanno ritenuto pienamente dimostrato il contrario.
Nel corso delle indagini, infatti, erano stati rinvenuti imballaggi contaminati da sostanze pericolose, bombole di gas, batterie esauste, componenti di serbatoi e la carcassa combusta di uno scaldabagno.
Tutti elementi che, secondo la normativa ambientale, rientrano a pieno titolo nella categoria dei rifiuti pericolosi.
I giudici hanno inoltre sottolineato che l’attività contestata non poteva essere considerata un episodio isolato o occasionale.
Al contrario, la quantità e la tipologia dei materiali presenti, insieme alla modalità di gestione, denotavano un comportamento organizzato e continuativo, incompatibile con una semplice presenza casuale sul luogo del rinvenimento.
L’imputato era stato condannato in base all’articolo 256, comma 1, del D.Lgs. 152/2006, che punisce chiunque effettui raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio o intermediazione di rifiuti senza la prescritta autorizzazione.
Ad ogni modo, quando si tratta di rifiuti pericolosi, la norma prevede un aggravamento delle pene. Nel caso in esame, infatti, i giudici hanno ritenuto pienamente integrati gli estremi del reato, evidenziando la gravità ambientale delle condotte poste in essere.
La Cassazione ha respinto anche le doglianze sulla determinazione della pena, ritenendo corretta l’applicazione delle sanzioni previste per i rifiuti pericolosi, data la tipologia dei materiali accertati.
La sentenza di legittimità ha dunque confermato le decisioni di merito, dichiarando il ricorso inammissibile e condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di 3.000 euro in favore della Cassa delle Ammende.
Le implicazioni della decisione
La pronuncia assume rilievo non solo per la vicenda individuale, ma anche per il principio ribadito in materia di prescrizione dei reati ambientali.
Con questa decisione, la Corte riafferma che la sospensione introdotta dalla Riforma Orlando continua a operare per i reati commessi nel periodo di vigenza della norma.
Assicurando in questo modo che condotte di particolare gravità ambientale non restino impunite per mere questioni temporali.
La Cassazione ha inoltre rafforzato l’orientamento secondo cui, in materia di rifiuti, l’occasionalità della condotta non è sufficiente a escludere la responsabilità. Soprattutto quando vi sia la prova della gestione di materiali pericolosi o di ingenti quantitativi di rifiuti.
In altre parole, la decisione della Corte di Cassazione conferma un principio chiaro: la tutela dell’ambiente passa anche attraverso la certezza dell’applicazione delle norme penali.
Le attività di gestione non autorizzata di rifiuti, specie se pericolosi, costituiscono una minaccia concreta per la salute pubblica e per l’ecosistema, e non possono essere giustificate come episodi isolati o marginali.
Con questa sentenza, in conclusione, la Suprema Corte ribadisce l’importanza del rispetto delle regole in materia ambientale e rafforza l’impianto sanzionatorio previsto dal Testo Unico.

