Impianti di rifiuti: obbligo di distanza minima dalle abitazioni confermato dal Consiglio di Stato

Il caso sull’annullamento di un’AIA ottenuta con dichiarazioni inesatte riaccende il dibattito sulla tutela dei residenti e sul rispetto del Piano Regionale Gestione Rifiuti

Il Consiglio di Stato ha di recente ribadito, con la sentenza n. 8441/2021, che gli impianti che trattano rifiuti pericolosi devono essere situati ad almeno 500 metri dagli insediamenti abitativi, pena l’annullamento dell’autorizzazione anche oltre i termini ordinari.

Vediamo in questo articolo tutti i dettagli. 

La vicenda sugli impianti di rifiuti: un’autorizzazione ottenuta con dichiarazioni errate

La decisione del Consiglio di Stato di cui sopra nasce da una controversia relativa al rilascio di un’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) a una ditta che intendeva realizzare un impianto per il recupero di rifiuti pericolosi e non pericolosi.

Nello specifico, nel presentare la domanda, l’impresa aveva dichiarato che le abitazioni presenti nella zona fossero “case sparse”, e non veri e propri “insediamenti residenziali”.

In questo modo, aveva sostenuto che il sito non rientrasse nelle aree soggette al vincolo dei 500 metri previsto dal Piano Regionale Gestione Rifiuti.

Di conseguenza, la Regione, accogliendo tali dichiarazioni senza ulteriori verifiche, aveva rilasciato l’AIA.

Tuttavia, in seguito a una segnalazione del Comune competente, è stato accertato che a meno di 500 metri dall’impianto vi erano gruppi di abitazioni chiaramente riconducibili a un nucleo abitativo, e non a semplici case isolate.

A quel punto, la Regione ha avviato un procedimento di annullamento parziale in autotutela dell’autorizzazione, limitatamente alla parte che riguardava il trattamento di rifiuti pericolosi.

L’annullamento, benché adottato dopo il termine ordinario di 18 mesi (oggi ridotto a 12), è stato ritenuto legittimo perché l’AIA era stata ottenuta attraverso una “falsa rappresentazione dei fatti”.

In questo contesto, nella sentenza n. 8441/2021, il Consiglio di Stato ha confermato la legittimità dell’annullamento dell’autorizzazione.

Dalla documentazione acquisita risultava evidente che, entro il raggio di 500 metri, vi erano aggregati di abitazioni che non potevano essere considerati isolati.

Di conseguenza, le dichiarazioni della ditta si configuravano come oggettivamente difformi dal vero, integrando la “falsa rappresentazione” che consente l’annullamento d’ufficio anche oltre i termini ordinari, ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990.

Un criterio “escludente” e auto-applicativo

Inoltre, il Consiglio ha escluso che vi fosse una responsabilità della Regione per deficit istruttorio.

L’amministrazione aveva infatti rilasciato l’AIA sulla base di documenti e dichiarazioni presentate da professionisti incaricati dall’impresa, nel rispetto del principio di buona fede e collaborazione tra amministrazione e privato.

Non è quindi imputabile alla Regione l’errore, né le si può contestare di non aver messo in dubbio a priori le informazioni fornite dal richiedente.

Non solo, il Consiglio di Stato ha anche ribadito un principio fondamentale: il vincolo della distanza minima di 500 metri dagli insediamenti abitativi ha natura escludente e non ammette deroghe.

Questo significa che, se tale distanza non è rispettata, l’impianto non può essere autorizzato.

Il potere di autotutela, quindi, è stato esercitato in modo legittimo anche dopo i 18 mesi, una volta accertata la violazione originaria del criterio di localizzazione.

La ratio del vincolo è chiara: creare una zona di sicurezza intorno agli impianti che trattano rifiuti, in particolare quelli pericolosi, per ridurre i potenziali rischi per la salute e la sicurezza dei residenti.

Il Consiglio ha anche precisato che la distanza deve essere calcolata in linea d’aria, con metodo radiale, cioè tracciando una circonferenza con centro nell’impianto.

All’interno di questa area non devono essere presenti insediamenti abitativi, mentre sono tollerabili soltanto case sparse, cioè edifici isolati privi di continuità urbanistica.

Un ulteriore punto chiarito dalla sentenza riguarda il rapporto tra i Piani Regionali e la pianificazione provinciale.

La ditta sosteneva che la distanza dei 500 metri non fosse applicabile, poiché non recepita nel Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP).

Il Consiglio di Stato ha però respinto questa tesi, affermando che il criterio fissato dal Piano Regionale è immediatamente efficace e self-executing, cioè non richiede alcuna ulteriore specificazione o recepimento da parte delle Province.

Una decisione che rafforza la tutela del territorio e dei cittadini

Le norme regionali, infatti, stabiliscono che il Piano definisce i criteri per individuare le zone idonee o non idonee alla localizzazione degli impianti.

Tra questi criteri rientra anche la distanza minima dalle abitazioni, che rappresenta un parametro compiuto e vincolante.

Le Province, a loro volta, devono tener conto di tali criteri nella redazione dei propri piani, individuando concretamente i siti dove potranno essere collocati gli impianti.

In altre parole, la Regione stabilisce le regole generali, mentre la Provincia le applica a livello territoriale, senza poterle modificare o attenuare.

In altre parole, questa sentenza assume particolare rilievo perché ribadisce la necessità di una corretta pianificazione territoriale e il rispetto dei vincoli di sicurezza previsti dal legislatore.

Si ricorda infatti che gli impianti di trattamento dei rifiuti, soprattutto se pericolosi, devono essere collocati in aree che garantiscano distanza, sicurezza e sostenibilità ambientale.

Il Consiglio di Stato ha sottolineato che tali prescrizioni non rappresentano un ostacolo allo sviluppo industriale, bensì una tutela preventiva per la salute pubblica e per il corretto equilibrio tra esigenze produttive e qualità della vita dei cittadini.

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