Con la sentenza del 2025, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di un imprenditore florovivaista per gestione illecita di rifiuti, ribadendo la responsabilità penale anche in caso di semplice omessa vigilanza.
Vediamo in questo articolo tutti i dettagli.
Nessuna esclusione di responsabilità per la temporaneità del deposito di rifiuti o l’assenza del titolare
Come anticipato, una nuova sentenza della Corte di Cassazione chiarisce la responsabilità dei rappresentanti legali in materia ambientale.
Con la decisione del 2025, è stata confermata la condanna a carico di un imprenditore siciliano per la gestione non autorizzata di rifiuti ai sensi dell’art. 256, comma 2, del D.Lgs. 152/2006.
La vicenda nasce da un’ispezione in cui gli ispettori hanno rinvenuto materiali eterogenei abbandonati su un terreno utilizzato da una società florovivaistica, senza le prescritte autorizzazioni.
L’imputato era stato riconosciuto colpevole in secondo grado dalla Corte d’Appello di Messina, che aveva riformulato la qualificazione giuridica del fatto ridimensionando l’imputazione dal comma 3 al comma 2 dell’articolo 256 del Testo Unico Ambientale.
La pena definitiva inflitta è stata di cinque mesi di arresto e 3.000 euro di ammenda.
La Corte ha sottolineato che, in materia di rifiuti, il legale rappresentante dell’impresa non risponde solo delle violazioni commesse direttamente, ma anche di quelle poste in essere da soggetti che rientrano nella sua sfera di controllo, come dipendenti o collaboratori.
Si tratta della cosiddetta “posizione di garanzia”, che impone all’imprenditore di prevenire condotte illecite e vigilare sull’intera gestione aziendale.
In questo caso, la società disponeva del terreno su cui gli ispettori avevano rinvenuto i rifiuti, e la Corte ha ritenuto che l’imputato avesse l’obbligo giuridico di impedirne l’abbandono o il deposito incontrollato.
La giurisprudenza ha ribadito in più occasioni che l’omessa vigilanza equivale a responsabilità penale, anche se l’imprenditore non ha materialmente eseguito l’illecito.
Rigettati tutti i motivi di ricorso
Il ricorso per Cassazione è stato respinto in toto, con motivazioni articolate su tre fronti principali:
1. Richiesta di rinvio dell’udienza:
L’imputato ha contestato l’assenza di uno dei suoi due difensori all’udienza d’appello, ma la Corte ha ricordato che, se l’imputato ha nominato due difensori, la legge consente di procedere con la presenza in aula di uno solo di essi. Di conseguenza, non sussisteva alcun vizio processuale.
2. Accesso all’area e deposito temporaneo:
Munafò sosteneva che i rifiuti fossero stati accumulati temporaneamente in attesa dello smaltimento, come consentito dall’art. 185-bis del D.Lgs. 152/2006. Tuttavia, non è stata fornita alcuna prova che le condizioni previste dalla norma fossero state rispettate: né la tracciabilità dei materiali, né le modalità e i tempi di conferimento, né l’idoneità dell’area.
La Cassazione ha inoltre ritenuto irrilevante la tesi difensiva secondo cui l’area sarebbe stata accessibile anche ad altri soggetti esterni al nucleo familiare, poiché l’imputato non ha fornito elementi utili per escludere il collegamento tra i rifiuti e l’attività imprenditoriale.
3. Particolare tenuità del fatto:
La difesa aveva richiesto l’applicazione dell’art. 131-bis c.p., invocando la modesta entità dei materiali e il fatto che l’imputato avesse provveduto successivamente alla rimozione. Ma secondo i giudici, tali circostanze non erano sufficienti a qualificare la condotta come di scarsa offensività. Al contrario, viene evidenziato il disvalore della condotta, data la natura eterogenea dei rifiuti e l’assenza di garanzie ambientali.
Quando il deposito temporaneo diventa illecito
La sentenza torna anche su un punto tecnico spesso oggetto di contenzioso: la differenza tra deposito temporaneo e gestione illecita di rifiuti. Secondo il D.Lgs. 152/2006, il deposito temporaneo è consentito solo se rispettate tutte le condizioni normative, tra cui:
- il deposito deve avvenire nel luogo di produzione dei rifiuti;
- deve essere effettuato in modo ordinato e tracciabile;
- deve essere avviato allo smaltimento entro precisi limiti di tempo e quantità.
In caso contrario, si configura una gestione non autorizzata, che è penalmente sanzionabile. Nel caso di Munafò, nessuna di queste condizioni era stata documentata, motivo per cui la difesa non ha potuto sostenere l’esistenza di un deposito lecito.
La Corte ha concluso affermando che la sentenza d’appello aveva correttamente applicato la normativa, tenuto conto del ruolo dell’imputato, della natura dei rifiuti e dell’assenza di elementi a suo discarico.
La motivazione della condanna è risultata logica e coerente, anche rispetto al rigetto della particolare tenuità del fatto.
Nonostante la rimozione successiva dei rifiuti, già valutata come attenuante, la gravità dell’illecito e il mancato rispetto delle regole ambientali giustificano il mantenimento della sanzione penale.
Una decisione che conferma, ancora una volta, la linea rigorosa della Cassazione in tema di rifiuti, e la piena responsabilità dei rappresentanti aziendali in caso di violazioni ambientali.