Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 19391 del 16 maggio 2024) ha fatto chiarezza sulla natura degli scarichi provenienti dalle strutture sanitarie.
Nello specifico, ha stabilito che le acque reflue prodotte da una clinica medica devono essere considerate industriali e richiedono un’autorizzazione specifica. Il mancato rispetto di tale obbligo comporta responsabilità penali.
Vediamo in questo articolo tutti i dettagli.
La sentenza della Corte di Cassazione: scarichi non autorizzati di acque reflue da parte di una clinica o di strutture sanitarie
Nel maggio 2024, con la sentenza n. 19391, la Corte di Cassazione si è espressa su un caso che riguarda una clinica medica accusata di scarico non autorizzato di acque reflue nella rete fognaria destinata esclusivamente a reflui domestici.
Il Tribunale di Cassino aveva condannato due legali rappresentanti della struttura sanitaria per aver immesso acque reflue industriali senza autorizzazione, violando l’articolo 137 del D.Lgs. 152/2006.
Sebbene il reato fosse estinto per prescrizione, la Suprema Corte ha confermato la responsabilità degli imputati, offrendo spunti interpretativi cruciali per la normativa ambientale.
La sentenza prende le mosse dalla definizione di acque reflue contenuta nell’articolo 74 del D.Lgs. 152/2006 (“Codice dell’Ambiente”). Secondo tale norma:
- Le acque reflue domestiche sono quelle provenienti da insediamenti residenziali e da servizi, derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche (art. 74, lett. g).
- Le acque reflue industriali comprendono invece qualsiasi tipo di refluo scaricato da edifici o impianti in cui si svolgono attività commerciali o produttive, escluse le acque domestiche e le meteoriche di dilavamento (art. 74, lett. h).
In passato, la distinzione si basava principalmente sulle caratteristiche qualitative del refluo. Oggi, invece, è la provenienza dell’acqua reflua a determinare la sua classificazione.
Di conseguenza, anche gli scarichi dei bagni di una clinica rientrano nella categoria industriale, poiché l’edificio ospita un’attività economica e non è un insediamento domestico.
La normativa sulla necessità di autorizzazione allo scarico
In base all’articolo 124 del D.Lgs. 152/2006, ogni scarico deve essere preventivamente autorizzato, a prescindere dal tipo di refluo. In particolare, l’articolo 137 punisce penalmente chi effettua uno scarico non autorizzato. La Corte ha dunque sottolineato che:
- Non è sufficiente l’assimilabilità ai reflui domestici per escludere l’obbligo autorizzativo.
- Le cliniche non possono invocare automaticamente il D.P.R. 227/2011, che prevede l’assimilazione dei reflui delle piccole e medie imprese (PMI) a quelli domestici, se non rispettano tutte le condizioni previste (tra cui l’autocertificazione di PMI e il rispetto dei limiti previsti dalla normativa regionale o nazionale, come l’Allegato 5 del D.Lgs. 152/2006).
Nel caso in esame, gli imputati non hanno dimostrato il rispetto dei criteri di assimilazione, né fornito la documentazione necessaria.
Anche le analisi svolte dall’ARPA hanno escluso la possibilità di equiparare le acque scaricate a reflui domestici, poiché provenienti da pazienti che assumevano farmaci e soffrivano di varie patologie.
La difesa ha sostenuto che, in assenza di un danno concreto, si sarebbe dovuta applicare la procedura estintiva prevista dagli articoli 318-bis e seguenti del D.Lgs. 152/2006, introdotta con la Legge 68/2015. Tuttavia, la Cassazione ha chiarito che:
- La procedura non costituisce condizione di procedibilità dell’azione penale.
- Gli organi di vigilanza non sono obbligati a impartire prescrizioni tecniche se la regolarizzazione è già avvenuta o se non vi sono condizioni per regolarizzare.
- La Corte Costituzionale ha confermato (sentenze n. 76/2019 e n. 238/2020) la legittimità della norma, ribadendo che la procedura estintiva non impedisce l’azione penale.
Pertanto, anche in assenza di danno, se l’attività è svolta senza autorizzazione, permane la responsabilità penale.
Le implicazioni pratiche e normative della sentenza
Questa sentenza rappresenta un precedente fondamentale per le strutture sanitarie, ma anche per altre attività di servizi (centri estetici, laboratori odontotecnici, case di cura), che non possono considerare automaticamente domestici i propri scarichi.
I punti chiave che emergono sono dunque i seguenti:
- La qualificazione degli scarichi dipende dalla natura dell’attività, non dal tipo di liquido.
- Le strutture produttive di servizi, come le cliniche, sono assimilate ad attività industriali.
- L’assenza di autorizzazione allo scarico configura un reato, anche se i reflui sono simili a quelli domestici.
- La procedura di estinzione del reato ambientale è possibile solo in presenza di determinati requisiti, ma non blocca l’azione penale in automatico.
- È compito del titolare dimostrare eventuali assimilazioni previste dal D.P.R. 227/2011, con idonea documentazione e verifica dei parametri qualitativi.
In altre parole, la sentenza della Corte di Cassazione del 16 maggio 2024 conferma l’orientamento restrittivo della giurisprudenza in tema di scarichi non autorizzati e ribadisce l’importanza di un’accurata classificazione delle acque reflue.
La responsabilità non può essere evitata con valutazioni soggettive o analogie: è essenziale il rispetto formale e sostanziale delle norme.
Le strutture che operano nel settore sanitario o dei servizi devono quindi ottenere autorizzazioni esplicite per ogni tipo di scarico.
Inoltre, è opportuno che verifichino con attenzione se rientrano tra le PMI e, in tal caso, che dimostrino il rispetto delle condizioni per l’assimilazione ai reflui domestici.
Infine, devono considerare che anche le attività non industriali in senso stretto possono essere trattate come produttive ai fini ambientali.
In caso contrario, oltre al rischio di sanzioni amministrative e penali, si rischia la sospensione dell’attività per violazione delle norme ambientali fondamentali.